Sabato sera si concludeva la Mostra del cinema di Venezia: gli applausi, il red carpet, le polemiche, i divi, gli articoli dei giornali, le interviste, la televisione. E poi? E poi i film escono in sala, in alcuni casi proprio subito subito, a ridosso, per sfruttare l’effetto di pubblicità, le discussioni ancora calde, le immagini appena passate nei servizi televisivi. Così, sono tre i film italiani che sono usciti subito. Ma i dati degli incassi non sono confortanti.
“Sangue del mio sangue” è il film di Marco Bellocchio, maestro del cinema italiano. Presentato in concorso, il film – una coproduzione fra Italia, Francia e Svizzera, con contributo ministeriale per film di interesse culturale nazionale – ha incassato nel primo weekend 172mila euro, per un totale di 192mila dal giorno di uscita. “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, il film sui ragazzi delle borgate di Ostia, prodotto da Valerio Mastandrea, incassa anche meno: 85mila euro. E ancora più piccola è la quota di incassi di “Storie sospese”, il film di Stefano Chiantini con Marco Giallini presentato alle Giornate degli autori alla Mostra del cinema: 16mila euro.
Per capire, “I Minions” nello stesso weekend ha incassato due milioni e 600mila euro, per un incasso totale che sfiora i venti milioni. Una sproporzione abissale. Dunque, l’ “effetto Venezia” non funziona più? O forse si tratta solo dei casi singoli
Nessuno, ovviamente, immaginava che “Non essere cattivo” di Claudio Caligari, regista poco noto – morto alla fine delle riprese del film – con un cast di attori emergenti potesse incassare quanto “I Minions”.
Ma c’è una discrepanza forte fra quello che succede nei festival, il cinema di cui nei festival si parla, si dibatte, il mondo che quei film disegnano, e il mondo delle multisale.
Qual è il motivo di una differenza tanto grande? Magari c’entra il numero delle sale in cui il film è presentato: 94 quelle del film di Bellocchio, contro le 715 dei “Minions” – e nel primo weekend erano 800. O 64 sale per il film di Caligari. Questo significa che in una multisala forse il film di Bellocchio o quello di Caligari non lo trovi. Ma se lo trovasse, la gente andrebbe a vederlo?
Forse la lingua che parlano tutti – giornalisti, critici, addetti ai lavori – nei festival è una lingua che non arriva al grande pubblico. O forse nelle scuole di cinema si insegna un cinema di ricerca, d’autore, che diventa un oggetto misterioso ed estraneo per molti.
Un film deve raccontarti una storia che poi tu, uscito dalla sala, devi aver voglia di raccontare a qualcuno, e deve averti dato le parole esatte per farlo. E’ così che, al netto del battage pubblicitario, si trasmettono i film tra spettatore e spettatore. Deve essere facile dire “Ho visto un film di guerra terribile sugli orrori del conflitto bosniaco. Però è anche una bellissima storia d’amore per una città”. Ma questo deve averlo deciso lo sceneggiatore, deve averti fornito un copione da recitare.
Ma questa cosa non si insegna in nessuna scuola di sceneggiatura italiana.
Un film deve prima di tutto parlare la tua lingua, parlarti con le immagini e le parole che conosci, anche per raccontarti cose che non sai e nemmeno immagini. Ma la successione delle scene deve essere semplice, coerente e ridotta all’essenziale. Nei festival invece pare che i film italiani facciano a gara a confonderti. Forse davvero l’atteggiamento snob che molti sceneggiatori italiani hanno per i paradigmi e il metodo di scrittura e struttura statunitense è una delle cause di questi massacri al botteghino?
Qui non si tratta di essere esterofili, io amo visceralmente il cinema italiano, ma di capire che la sceneggiatura ha una sua precisa grammatica che serve a chiarire e non a banalizzare, che noi abbiamo un certo modo di assorbire le storie ed esistono precisi strumenti che, se saputi usare senza superficialità, sono lì apposta per parlare dei Minions o delle borgate devastate di Ostia con la stessa identica chiarezza e semplicità.